Berlusconi: Dopo Monti torneremo al governo del Paese

L'introduzione del Presidente Silvio Berlusconi al libro di Roberto Gelmini su Gabriele Albertini sindaco di Milano

Silvio Berlusconi

Amministrative del 1997. Presidente Berlusconi, è stato più difficile dire no ai tanti che si erano proposti, chiedendole di candidarli a sindaco di Milano, oppure convincere Albertini ad accettare?

Nel 1997 le elezioni a Milano non erano per nulla scontate. L’alleanza con la Lega, che si era rotta alla fine del 1994, non si era ancora ricomposta. Proprio per questo, alle elezioni politiche dell’anno precedente la sinistra guidata da Prodi aveva vinto le elezioni politiche. A Milano c’era un sindaco uscente leghista, Marco Formentini, che si ricandidava, e tutti sanno che il sindaco uscente gode sempre di un vantaggio di notorietà rispetto agli altri candidati. Nello stesso tempo, era la prima volta dalla nascita di Forza Italia che si votava a Milano, la città dove tutto era nato. Era una sfida stimolante, perché Milano è per tanti aspetti la città più avanzata d’Italia, quella che – insieme a Roma – ha una maggiore visibilità internazionale. Ed era anche la prima occasione che avevamo per dimostrare che la sinistra, pur avendo vinto le elezioni, non aveva la maggioranza nel Paese. Era quindi logico che molti fossero tentati da questa scommessa. Fra loro sia esponenti autorevoli della società civile, sia uomini di partito che dal 1993 avevano accolto il mio appello ad impegnarsi nella vita pubblica, e che in quegli anni avevano ben lavorato. Devo dire che per qualcuno di loro fare un passo indietro è stato un sacrificio, forse anche ingiusto, ma devo anche dare atto che tutti l’hanno compiuto con serenità e senso di responsabilità. La posta in gioco era troppo importante, sia per Milano che per la politica nazionale.
Quanto a Gabriele, per fortuna è uomo capace di decidere. All’inizio non ci pensava neppure. Ma quando si è convinto, ha deposto ogni esitazione, e si è impegnato come lui sa fare.



Che cosa non avevano questi auto-candidati e che invece lei aveva trovato in Albertini? 

La città doveva ripartire, materialmente e moralmente, dopo gli anni drammatici di Tangentopoli. Non bastava una persona seria, corretta e di buona volontà. Di queste ne avevamo tante. Ci voleva un candidato che portasse un valore aggiunto, non tanto di voti, quanto di capacità progettuale, di concretezza manageriale, di fantasia imprenditoriale. Per questo ho pensato ad Albertini. 


Albertini non era conosciuto se non nel mondo imprenditoriale. Presidente di Federmeccanica, una delle associazioni in prima linea all’interno di Confindustria, che lui stava guidando con equilibrio ed estrema determinazione. Ma defilato, riservato, di poche parole. Molto diverso da lei, dalla sua personalità. Pensava che con il tempo lo avrebbe cambiato, oppure le andava bene così com’era?

Naturalmente ho pensato a lui perché il suo profilo andava benissimo così com’era. Anche perché c’è un aspetto che forse lei sottovaluta: Albertini è un uomo certamente riservato, ma è un grande comunicatore. Ed io, che di comunicazione forse un po’ me ne intendo, lo avevo capito fin dal primo giorno.


Un ricordo personale di quella campagna elettorale?
 

Un ricordo molto vivo: il comizio di chiusura in piazza Duomo, strapiena di milanesi festanti. Io invece temevo che quell’incontro con la gente avrebbe potuto essere l’ultimo perché  il giorno dopo mi sarei dovuto sottoporre ad un difficile intervento chirurgico. Ma proprio l’entusiasmo, l’affetto, la fiducia della nostra gente, che chiedeva ad Albertini e a me di dare a Milano una amministrazione onesta ed efficiente mi diede la forza, in qualche modo la certezza, che ce l’avremmo fatta. Nelle urne e in camera operatoria. Ho condiviso questa emozione con Gabriele, uno dei pochi ad essere al corrente dell’intervento a cui mi sarei dovuto sottoporre. Anche da questa vicenda umana, nacque un’amicizia che va ben al di là delle contingenze politiche.


Un governo di stile imprenditoriale è stata la promessa di Albertini, poi mantenuta anche con qualche strappo nei confronti della politica, e del suo stesso partito. Ma era anche la sua, Presidente, per governare il Paese. Perché a Milano l’esperimento è riuscito e a Roma tutto è stato più difficile?


Un Sindaco ha poteri ben diversi e maggiori di quelli di un Presidente del Consiglio. Il Sindaco può cambiare gli assessori quando vuole, il Premier no.
Il Sindaco se si dimette scioglie il Consiglio Comunale, il Premier se si dimette può essere sostituito con chiunque altro, anche con una persona che non si è presentata alle elezioni. L’unico potere del Presidente del Consiglio è quello di presentare un disegno di legge al Parlamento. Se va bene dopo 18-24 mesi esce dal Parlamento un provvedimento molto lontano normalmente da quello iniziale, che se non piace alla sinistra viene impugnato da un Pubblico Ministero e sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale che, inderogabilmente, lo abroga. Se non si cambia l’architettura istituzionale dello Stato, l’Italia continuerà ad essere un paese ingovernabile. Ripeto, la prima riforma istituzionale da fare è quella di dare al Presidente del Consiglio, eletto dagli Italiani, i poteri per governare davvero. Detto questo, mi pare che la sua domanda colga bene i meriti e l’efficacia del lavoro delle Giunte Albertini, ottenuti anche grazie al convinto e continuo appoggio da parte nostra. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare i risultati che, nonostante tutto, il Governo ha ottenuto, in anni difficilissimi per l’economia internazionale. I fatti di queste settimane ci stanno dando ragione su tutta la linea, mi pare.


A Montanelli il nuovo sindaco era piaciuto prima ancora che lui vincesse le elezioni. Ed ha conservato il suo giudizio positivo anche alla prova dei fatti. Un sostegno che ha sicuramente aiutato Albertini. Come giudicò quel rapporto, soprattutto dopo la rottura tra lei e il giornalista più famoso d’Italia?


La rottura con Montanelli, per la verità, fu del tutto unilaterale. Io sono orgoglioso di avere aiutato Montanelli per molti anni a tenere in vita il suo Giornale, quando era in gravi difficoltà economiche al punto di dover chiudere. Il Giornale costituiva uno dei pochi baluardi anticomunisti in anni difficili, con il PCI oltre il 30%. Era una battaglia meritoria, che ho sostenuto senza mai pretendere in cambio alcunché, come lo stesso Montanelli ha sempre riconosciuto. Il fatto che poi il suo giudizio su Albertini e il mio fossero coincidenti dimostra in qualche modo che non avevamo mai smesso di vedere le cose allo stesso modo, nonostante lui si fosse schierato con quelli che – fino a pochi mesi prima – erano stati i suoi peggiori nemici.


Ce ne fu un altro, di rapporto, anche più indigesto: quello con Borrelli, il capo della procura di Milano, l’uomo simbolo delle “toghe rosse”.  Nel partito, allora Forza Italia,  molti se non tutti erano scandalizzati, sicuramente le chiedevano di intervenire per fermare Albertini. Perché lei non l’ha fatto?


Perché sono un liberale, e non è mia abitudine, né fa parte della mia mentalità, imporre nulla a nessuno. Io – com’è noto – do un giudizio molto severo sull’attività della Procura della Repubblica di Milano guidata dal dott. Borrelli. Ma questo non annulla il fatto che il titolare di quell’ufficio, e poi della Procura Generale, all’epoca fosse il dott. Borrelli, e quindi bene abbia fatto il Sindaco a mantenere un corretto rapporto fra istituzioni. Quanto alla stima personale fra i due, della quale si è molto parlato, non ne so molto. Credo che da parte di Albertini sia nata da quella fede negli organi dello Stato, da quella visione quasi sacrale della Magistratura, che faceva parte integrante della nostra cultura liberale. Io stesso, fino ai primi momenti di Mani Pulite, conservavo, pur con crescenti perplessità, quella fiducia nei magistrati che mi aveva insegnato mio padre. Se c’è una cosa che non perdonerò mai a certi magistrati è proprio il fatto di aver distrutto questo sentimento, che era un valore e un ideale. Devo però aggiungere che Gabriele, pur avendo un’opinione diversa dalla mia su alcuni magistrati, non si è mai associato in alcun modo alle campagne giustizialiste. Anzi, è sempre stato molto leale nei miei confronti, anche quando sono stato oggetto delle peggiori aggressioni giudiziarie. Di questo gli sono grato.


Albertini le riconosce tanti meriti: di essere sempre stato leale nei suoi confronti, di avergli permesso di lavorare liberamente, anche quando gli esponenti lombardi del centrodestra, e non solo lombardi, avrebbero voluto la sua testa. Solo per simpatia o c’era in disegno politico, una sorta di richiamo che valeva anche per il suo ruolo di Presidente del Consiglio?


Le due cose vanno di pari passo. Senza dubbio qualche volta ho dovuto difendere Albertini da tensioni o conflitti con qualche esponente del centro-destra, anche se – per la verità – assai raramente da parte di Forza Italia. Albertini, come tutti gli uomini di carattere, non ha un carattere facile. Ma a me le persone di carattere sono sempre piaciute anche perché rarissimamente sono sleali.
Ma al di là di questo, c’è un dato politico e istituzionale importante. Io credo che un Sindaco, un Presidente di Regione, un Premier, una volta scelti dalla gente, abbiamo il diritto e il dovere di lavorare secondo le proprie idee e la propria visione. Una politica fatta di continue estenuanti trattative diventa in breve una politica fatta di parole e non di atti concreti. Non è quello che la gente si aspetta. Albertini, come ogni Sindaco, aveva il pieno diritto di attuare le proprie idee e i propri metodi. Stava poi ai cittadini se rieleggerlo, sulla base dei risultati ottenuti. Nel suo caso i risultati sono stati ottimi, e quindi naturalmente è stato ricandidato e rieletto. Per quanto mi riguarda se la legge lo avesse consentito, lo avrei ricandidato anche una terza volta.


Il partito non ha mai amato Albertini. Perché non seguiva le regole non scritte ma praticate da tutti, primum vivere cioè aiutare gli amici, o per il naturale rigetto dei politici professionisti nei confronti di chi non fa parte del gruppo? Né intende accettare i compromessi?


Albertini non è un politico di professione, come non lo sono io, e questo certamente ci accomuna. Lui è più solista di me, non ama molto fare squadra, qualche volta forse non tiene conto che i risultati nascono dalla collaborazione, il più possibile armoniosa, di tante persone. D’altronde è fatto così, prendere o lasciare. Però vorrei smentire un equivoco: ad Albertini abbiamo sempre garantito di avere le mani libere, sostenendolo lealmente, sia allora come Sindaco, sia oggi come nostro rappresentante al Parlamento Europeo, dove ricopre un incarico di prestigio. Al di là di singoli episodi individuali, non ci sono mai state contrapposizioni pregiudiziali che non avrei certamente tollerato.


Ritengo che lei sia d’accordo: Albertini è stato tra i testimoni più credibili di una politica liberale di centrodestra, ma anche un grande rompiscatole.  Ricordo, per tutti, un episodio che vi ha portato sull’orlo della rottura: alla fine del primo mandato ci sarebbero state anche le elezioni politiche. Per lei era essenziale l’accordo con la Lega. Albertini, invece, chiedeva di rinviare l’appoggio al secondo turno, o addirittura ad elezioni già fatte. Uno strappo insanabile, che avrebbe messo a rischio una vittoria fin lì sicura. Alla fine, il sindaco si convinse, ma alla sua maniera: obbligando lei e Bossi a firmare il “patto di programma”. Ci vollero due settimane di passione, e le firme arrivarono. Insomma, a cedere fu Bossi... e anche lei.


Nel 2001 le condizioni erano molto diverse rispetto al 1997. La Lega era di nuovo un’alleata fedele e coerente, una parte essenziale del centro-destra con la quale ci accingevamo a governare il paese. Non avrebbe avuto senso che proprio a Milano, la città più importante che guidavamo, rimanesse in piedi una spaccatura immotivata fra noi e la Lega. Albertini – che all’inizio era contrario avendo avuto la Lega all’opposizione negli anni precedenti – in breve si convinse. E l’alleanza fu stipulata, come era giusto, sulle cose da fare, sul programma per Milano, che è una città concreta, che si aspetta concretezza dai suoi amministratori. Non fu una sconfitta per nessuno, né per Bossi, né per Albertini e neppure per me. La sconfitta, per tutti, sarebbe stata andare separati.


Albertini sostiene che i candidati devono essere scelti in base alle loro caratteristiche professionali e morali, non perché sono apparsi su qualche calendario. Che cosa gli risponde?


Che lui non è mai apparso, che io sappia, su nessun calendario, ed è sempre stato candidato da noi. Quindi sono perfettamente d’accordo con lui.


Nove anni di mandato, sei miliardi di euro investiti in opere pubbliche, almeno altri trenta quelli dell’indotto. E nessun avviso di garanzia, nessuna macchia. Insomma, un’amministrazione da presentare come modello, per le altre e per il Paese. Ma quando ha lasciato Palazzo Marino, Albertini è stato dimenticato, o quasi. Lui sostiene di avere persino fatto fatica a trovare un posto in lista alle Europee, dove poi avrebbe preso più di centoquarantamila voti. E di non essere riuscito a parlarne con lei. Perché? Perché il partito proprio non riesce a digerirlo?


Quando Albertini volle candidarsi alle elezioni europee, nel 2004, era ancora Sindaco in carica ed io espressi qualche perplessità sul fatto che fosse opportuno sommare due incarichi così impegnativi. Ero convinto che guidare una città come Milano fosse un compito incompatibile con altri impegni. Lui invece volle candidarsi e io non mi opposi, proprio a dimostrazione del fatto che non è mia abitudine imporre le mie opinioni a nessuno. Il Partito lo candidò e lui ottenne un brillantissimo risultato. Allo stesso modo, fu ricandidato nel 2009, quando non era più Sindaco, proprio perché anche nel Parlamento europeo si era dimostrato validissimo.


I cinque anni dell’amministrazione Moratti sono stati deludenti. I sondaggi la davano in forte, fortissima difficoltà. Eppure è stata ripresentata. Perché?


Non posso condividere il giudizio sui cinque anni della giunta Moratti. In continuità con quella di Albertini, l’amministrazione guidata da Letizia Moratti ha fatto molto per la città, anche sotto il profilo urbanistico e delle infrastrutture. Oggi chi viene a Milano vede una città in crescita, dopo decenni di immobilismo, con grandi realizzazioni e molti cantieri aperti.  Abbiamo creduto fosse nell’interesse della città continuare quel percorso, pur consapevoli che il sindaco Moratti era accusato di avere problemi di comunicazione con gli elettori ed un atteggiamento personale elitario.


In quella occasione Albertini diede una prova di grande lealtà, che forse non fu compresa appieno. I sondaggi dicevano chiaramente che, se si fosse candidato, avrebbe potuto contare su un venti per cento di gradimento personale. Tra la Moratti e un esponente sostenuto anche dalla sinistra più estrema, molti – avrebbe detto Montanelli – si sono turati il naso, ma con Albertini in campo...


Non ho mai dubitato della lealtà di Gabriele Albertini. Lealtà non tanto a me o a un partito, ma alla sua storia, alle sue idee, a suoi e nostri valori. Per questo non dubitavo che avrebbe resistito al corteggiamento strumentale del terzo polo. E non dubitando neppure della sua intelligenza politica, ero certo che non si sarebbe prestato a una manovra che avrebbe avuto come unico effetto quello di rendere più facile il risultato al quale si è giunti comunque, e cioè la vittoria di Giuliano Pisapia.


Non ritiene che la sconfitta a Milano, la città simbolo dei moderati che finisce alla sinistra, abbia influito negativamente anche sul suo governo?


Certo non ci ha fatto bene. Ma è stata soprattutto un sintomo di un clima politico generale che si andava deteriorando sempre più, non solo in Italia. Ricordo che, alle elezioni di medio termine, tutti i governi europei in carica hanno subito gravi sconfitte.
Albertini, in quei giorni, ebbe un’intuizione, poi divenuta in parte realtà con il governo Monti, che lei ora sostiene. Mettere assieme, con un obiettivo ben preciso e limitato nel tempo, le componenti moderate della sinistra e della destra, escludendo le estreme, Di Pietro e Bossi. Chiedeva, in sostanza, un patto per salvare Milano da una possibile figuraccia internazionale. C’é l’Expo all’orizzonte, ma fin qui hanno avuto un ruolo le liti più che i progetti. E poi che città presenteremo al mondo? Una Milano paralizzata dal traffico, impossibile da raggiungere attraverso le tangenziali, immalinconita, senza più la sua anima. E soffocata da nuove tasse.
Questi sono i risultati del governo della sinistra. Ma la sinistra, quando vince, non scende a patti. Quando nel 2006 prevalsero per 24.000 voti alle elezioni politiche proponemmo un governo di unità nazionale per gestire il paese spaccato a metà. Non si peritarono neppure di rispondere. Per venire ai nostri giorni pur avendo la maggioranza sia alla Camera che al Senato e senza essere stati mai sfiduciati dal Parlamento non abbiamo esitato a faci da parte perché abbiamo ritenuto che questo sarebbe stato più conveniente per il Paese al fine di consentire a una larga convergenza di fronte all’emergenza. Questa è la differenza fra noi e loro. E infatti la proposta di Albertini per Milano, che aveva una logica, non ebbe seguito.


Due domande, infine, sul prossimo futuro: che ruolo vede per Albertini nella politica italiana?


Quello che lui deciderà di assumere. Gabriele è senza dubbio una risorsa importante della quale non faremo a meno.

E per lei?
Di continuare ad essere il leader dei moderati finché gli italiani lo vorranno. E di lavorare ogni giorno, con tutte le mie forze, come ho sempre fatto, affinché - terminata la fase comunque transitoria del governo Monti - un centro destra in parte rinnovato e più ampio torni a guidare il Paese nel nome dei nostri ideali di libertà.

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